Quando si parla di echinodermi, ossia di quel gruppo di animali del mare solitamente dotati di “spine sulla pelle”, si fa riferimento generalmente ai ben noti ricci e alle stelle di mare. Pochi sanno che invece fanno parte di questa famiglia anche i crinoidi (o gigli di mare), le oloturie (o cetrioli di mare) e infine un particolare tipo di “stelle”, se proprio così le vogliamo definire, dette ofiure o, più comunemente, stelle serpentine. Le ofiure, come le stelle, sono costituite da un corpo centrale sul quale si innestano alcune braccia, ma vi sono differenze piuttosto nette tra le due classi e alcune sono facilmente evidenziabili anche a un esame superficiale. Ad esempio le braccia: sono sempre molto lunghe rispetto al corpo, serpentiformi e, tra l’altro, prive di solco ambulacrale. I pedicelli poi, quando presenti, non servono alla locomozione, come accade per le stelle e i ricci, quanto invece a consentire la percezione e la cattura del cibo.
Le ofiure si muovono grazie alle braccia, molto mobili e prensili, e sfruttano come appiglio ogni asperità e ogni tipo di oggetto sommerso: l’efficacia di un tale modello di locomozione è maggiore di quel che si pensi, visto che le ofiure sono, a tutti gli effetti, gli echinodermi più veloci. Prevalentemente sciafili, gli ofiuroidei hanno abitudini notturne o crepuscolari: di giorno si rifugiano in genere sotto i sassi e tra gli anfratti, lasciando fuoriuscire a volte le lunghe braccia sensibili, di notte escono invece allo scoperto. Ben nota tra gli studiosi è la voracità di questi animali: difficile osservare invertebrati più insaziabili e disposti a ingurgitare di tutto. Con capacità rigenerative sorprendenti, specie per la rapidità con cui avvengono, quasi tutte le ofiure hanno inoltre la possibilità di amputarsi le braccia, che restano facilmente tra le grinfie dell’aggressore mentre l’ofiura si allontana rapidamente.
Tra tutte le specie di ofiure, di cui abbiamo appena analizzato alcuni caratteri fondamentali, voglio parlarvi di una in particolare. Un’ofiura che, nonostante sia molto difficile da incontrare sott’acqua per le sue capacità mimetiche e per gli ambienti molto profondi che frequenta, merita di essere conosciuta per il suo aspetto a dir poco affascinante e per l’unicità della morfologia e delle abitudini di vita. Si tratta di Astrospartus mediterraneus, nota anche come stella gorgone per via del suo inconfondibile e curioso aspetto, che richiama appunto le sembianze della dea della mitologia greca, con mille serpenti al posto dei capelli.
La famiglia gorgonocephalidae, dell’ordine eurialae (dal greco eurialae che, per l’appunto, è il nome di una delle gorgoni), comprende ofiuroidei diffusi in tutto il mondo, sempre e comunque con braccia molto ramificate; nel Mediterraneo se ne trova una sola specie, come tra l’altro ci indica il nome latino. Questa vive solitamente oltre i 50 metri di profondità, in ambienti sabbiosi, fangosi e/o rocciosi, usando sovente le ramificazioni di celenterati coloniali come le gorgonie per fissarsi più o meno stabilmente. Le braccia di questa ofiura sono quasi sempre raccolte su stesse, quasi letteralmente “arrotolate” una per una, e si aprono soltanto durante la notte, per la cattura del cibo. Ciò fa apparire l’animale completamente diverso se osservato di notte o di giorno.
Tali differenze si apprezzano soprattutto in Mar Rosso, dove una specie molto grande di questa ofiura risulta facile da vedere perché abituata a risalire a pochissima profondità durante la notte. L’immersione notturna ci garantirà quindi l’incontro con la specie tropicale, molto bella a braccia “spiegate”, anche per via delle sue notevoli dimensioni se paragonata alla cugina mediterranea.
La stella gorgone del Mediterraneo, al contrario, è piuttosto rara, non supera i 40 cm di diametro con le braccia aperte, ma ha un fascino tutto suo, forse per le poche notizie che si hanno sulla sua biologia e le poche immagini che la riguardano. Le sue braccia tentacolari, ramificate notevolmente già a breve distanza dal disco centrale, presentano gli apici così articolati e mobili da formare un groviglio dove è difficile distinguere una forma precisa; a prima vista si ha la sensazione di osservare una matassa di nylon imbrogliata o roba del genere. Ad una osservazione più attenta si scopre invece un affascinante animale.
Con le lunghe braccia distese, la stella gorgone si trasforma in una micidiale trappola per il plancton, una rete tentacolare che si estende su di una superficie ampia e in grado di filtrare molti metri cubi d’acqua nell’unità di tempo, variabili secondo la dimensione dell’animale. Aprendo una stella gorgone si possono rinvenire nel suo stomaco copepodi, larve di crostacei e di pesci, anellidi, gamberetti e altro ancora. Non che abbia mai prelevato un solo esemplare per scoprirne il contenuto dello stomaco, ma c’è chi lo ha fatto per motivi di studio, consentendoci di capire molte cose. Tutta questa varietà di prede tuttavia non viene filtrata passivamente dall’acqua, ma catturata con movimenti adeguati delle braccia. Le sottili estremità sono capaci di avvinghiare il plancton, afferrarlo per mezzo di acuminati uncini disseminati sulle articolazioni e bloccarlo definitivamente con strati di muco. In questo modo, ogni braccio diventa progressivamente un centro di raccolta prede, che viene poi convogliato periodicamente verso la bocca.
Nel frattempo tutte le altre appendici rimangono distese e in azione. E così per tutta la notte. Il movimento delle braccia della stelle gorgone, apprezzabile col buio, richiama subito alla mente quello delle braccia piumate dei crinoidi e, in effetti, il movimento ha il medesimo obbiettivo: la cattura del cibo. Come si nutrano e quali siano le prede preferite da queste strane ofiure lo si sa grazie agli studi condotti sui parenti extramediterranei. I Gorgonocefalidi sono presenti dalla superficie a circa 2000 metri di profondità. Provvisti di una bocca piccola e incapaci di mordere o di inoculare veleni, si sono aggiunti alla fitta schiera dei filtratori, sfruttando le loro intricate braccia per catturare quanto le correnti marine trasportano senza sosta. Le correnti migliori e più ricche vanno ricercate con attenzione. Questo avviene con sagaci spostamenti della stella che, nel Mediterraneo, si colloca su una gorgonia in maniera abbastanza stabile mentre nei mari tropicali si rifugia negli anfratti per sfuggire alla luce del giorno e di notte si muove sul fondo risalendo, a seconda dei casi e dell’ habitat, i pinnacoli di corallo, le gorgonie, i coralli molli, le spugne, le pennatule o gli speroni di roccia più esposti.
Al biologo marino, in genere, mancano le esperienze dirette in natura, l’osservazione pratica in poche parole. La documentazione fotografica subacquea, mettendo in luce alcuni aspetti naturalistici inediti, fornisce prove inconfutabili di alcuni momenti di vita animale.
Parlando di esperienze in natura, credo sia importante riferire che gli esemplari che ho studiato e documentato sono stati osservati nel mare di Scilla, al confine nord dello Stretto di Messina, su alcune secche delle Isole Egadi e solo in piccola parte nel mare a sud di Livorno, a Quercianella, dove però gli esemplari incontrati risultano di dimensioni inferiori alla norma (medio-piccoli); questi ultimi astrospartus “toscani” si trovano inoltre a profondità minore del solito, con acqua spesso torbida in virtù dei fondali di roccia e fango e dei vicini fiumi, anche se sono maggiormente diffusi e spesso ospitati da esili gorgonie di specie diverse. Sui fondali scillesi, dove numerose secche, costituite da imponenti montagne sommerse, sono coperte da una fitta rete di gorgonie e lambite da correnti sostenute e frequenti, l’astrospartus si rinviene al di sotto dei 45 m di profondità, sempre “abbracciato” alle gorgonie.
Un bellissimo esemplare trovato all’inizio degli anni novanta, sui fondali di Scilla (Stretto di Messina, versante calabro settentrionale), sotto quella che chiamano la “montagna”, mi ha dato la possibilità di seguire la sua biologia per circa sei anni, trovandosi a poco più di 50 metri di profondità e in posizione agevole, consentendomi di tornare più volte a trovarlo. Un giorno si spostò, cambiando gorgonia e guadagnando qualche metro di profondità. Poi sparì per sempre, senza lasciare traccia. Fortunatamente le secche di Scilla ospitavano altri esemplari e ciò mi consentì di vedere, studiare e fotografare astrospartus diversi in contesti diversi. Un periodo fortunatissimo, durato poco più di un anno, mi vide impegnato con un bellissimo esemplare a soli 39 m di profondità, proprio accanto alla montagna di Scilla, la più nota tra le guglie rocciose di queste secche. La posizione favorevole, che vedeva la stella gorgonie ancorata a una gorgonia sulla parte più alta di uno scoglio di medie dimensioni, mi consentì di realizzare tra l’altro belle immagini, anche di notte, momento magico per osservare l’animale con le braccia aperte.
Tuttavia la luce artificiale, provocando la chiusura delle braccia, consente giusto il tempo di fare qualche scatto prima che l’animale assuma nuovamente l’aspetto tipico che mantiene di giorno. Da quanto detto avrete certamente compreso quante e quali sono le difficoltà per osservare e fotografare come si deve questa specie in natura: individuazione dei siti sommersi dove reperirla con buone probabilità, profondità a volte notevole dei fondali che la ospitano e infine individuazione dell’animale sul fondo. Per il resto è necessaria solo una buona dose di fortuna nel reperire animali in posizione pratica e agevole da consentire un’efficace ripresa fotografica. Viste le dimensioni dell’ofiura e il contesto in cui vive è poi utile sapere che l’ottica ideale per fotografare in queste situazioni è sempre il grandangolo spinto a distanza molto ravvicinata.
La pinna caudale varia di forma a seconda dell’età e negli adulti gli apici si prolungano in un filamento, rendendo la pinna più elegante. Le pettorali sono piccole e tondeggianti, mentre le ventrali sono trasformate in una placca mobile, rugosa esternamente, unita a una membrana sostenuta da una dozzina di spine, che si congiunge con l’apertura anale. La colorazione va dal grigio piombo al grigio azzurrastro, con riflessi verdastri sui fianchi e biancastri sul ventre. Sul dorso il pesce è grigio violaceo. La colorazione varia in funzione dell’età e i piccoli sembrano quasi pesci tropicali per via del loro aspetto che li vede di un viola scuro punteggiato di bianco.
Vive in vicinanza della costa sia su fondali rocciosi e sia detritici e algosi, con sottofondo di sabbia. E’ un modesto nuotatore e si lascia avvicinare dai sub. La riproduzione si ha verso la fine di giugno o al principio di luglio. La femmina prepara un nido soffiando sulla sabbia del fondo e asportando boccate di sabbia e ciottoli in modo da creare un infossamento, in cui deposita le uova. Durante l’icubazione (circa 3 giorni) il maschio fa la guardia poco distante. Le uova si schiudono di notte e le larve sono planctoniche. Si nutre di molluschi e crostacei, spezzando coi denti gusci e conchiglie. Si pesca occasionalmente con reti strascico o con tramagli ed è un pesce ii ottimo sapore, al punto che in alcuni luoghi la sua carne è molto apprezzata. Arriva fino a 40 cm di lunghezza, anche se la taglia media è sui 25 cm.
Definite le sue peculiarità, vediamo cose succede sott’acqua quando incontriamo questo pesce simpaticone e battagliero al tempo stesso. La prima cosa che il subacqueo capirà in breve, se frequenta il Mediterraneo, è che non sarà affatto facile l’incontro in natura. Occorre informarsi sui fondali e i luoghi da lui prediletti in ogni zona, valutando se le probabilità di incontrarlo possono aumentare magari su qualche relitto o in prossimità di boe galleggianti. Sovente i pescatori usano costruire zattere galleggianti con foglie di palma intrecciate, per creare zone d’ombra allo scopo di attirare pesce pelagico, soprattutto lampughe. All’ombra di queste strutture denominate “cannizzi”, nel sud Italia (in particolare in Sicilia), non sarà difficile imbattersi anche nel pesce balestra; ma il vero problema è immergersi in questi luoghi tenuti a bada gelosamente dai pescatori e tra l’altro distanti diverse miglia dalla costa, dove sono ancorati al fondo con un corpo morto e una cima. Per fortuna il balestra non disdegna alcuni fondali di roccia e sabbia o anche esclusivamente sabbia e detrito. Ma in ogni caso, durante il giorno, sarà lui a decidere se stabilire un contatto con il subacqueo o starsene alla larga. Diverso è il discorso dell’incontro notturno, momento in cui il pesce dorme profondamente e non fugge, lasciandosi tranquillamente immortalare.
Un’immersione particolare e divertente potrebbe essere quella lungo eventuali cime di ormeggio con galleggiante e corpo morto, utilizzate per l’ancoraggio delle imbarcazioni. Difatti può capitare che giovani balestra frequentino tali contesti, attratti dal cibo che trovano lungo la cime stessa, soprattutto molluschi e crostacei. In caso di perlustrazione notturna, imbattersi in questi pesci lungo una cima può significare fotografarli con tutta calma.